PALERMO. “Prevenire e contrastare la violenza è un compito che dev’essere assolto da tutti provando a sanare quel ‘malessere’ che stiamo vivendo attraverso il dialogo e il rispetto. E sono proprio il dialogo e la cultura, le armi che possediamo per prevenire la violenza. Ascoltare, quindi, credere e spiegare, educare e indirizzare i giovani verso modelli volti al rispetto dell’altro e dell’accettazione delle diversità”.
Il dialogo come risposta
Se c’è una soluzione quella è il dialogo con i più giovani. Sullo stupro della diciannovenne palermitana e sul fenomeno sempre più dilagante della violenza sulle donne risponde così Adriana Argento, responsabile del Centro Antiviolenza Lia Pipitone, che da dieci anni opera sul territorio di Palermo e provincia. “Lavorare con le famiglie e con le istituzioni scolastiche è l’unico strumento di prevenzione: aiutare i giovani a fidarsi degli adulti e viceversa”.
“La società non deve spaventarsi di parlare con i giovani – continua Argento – di affrontare argomenti delicati. Dev’essere in grado di fornire risposte adeguate ai loro istinti e ai dubbi. Non deve tenerli all’oscuro delle brutture del mondo pensando di ‘salvarli e prevenirli’ perché troveranno altrove le loro risposte. Si rivolgeranno ai loro pari e troveranno risposte falsate e improvvisate, ‘adeguandosi’ a stili di vita che non capiranno sino a perdersi”.
E i genitori? “Devono riappropriarsi del loro ruolo. Devono imparare a gestire la frustrazione dei figli davanti ad un no e devono imparare a gestire i propri sensi di colpa che non possono essere eliminati attraverso l’acquisto di beni materiali”.
Disagio giovanile e “normalizzazione” della violenza
“Ciò che forse è più tragico e deve far riflettere seriamente la società civile degli adulti, è l’atteggiamento di normalizzazione della violenza che i giovanissimi utilizzano. Di fronte ad un fenomeno che assume una portata ancora più orribile quando ad agire una violenza brutale sono dei giovani come accaduto con la giovane palermitana, vittima della brutalità di suoi coetanei – continua Paola Mirto, avvocata e coordinatrice del Centro Antiviolenza Lia Pipitone.
La deresponsabilizzazione costante verso le proprie azioni, spesso incentivata dai genitori, primi difensori di figli è uno dei tratti più evidenti in queste storie terribili – continua Mirto. L’unica a sentirsi distrutta dalle vessazioni e dal “giudizio” di chi a vario titolo interviene, da terribili sensi colpa, è la vittima, già distrutta psicologicamente dal trauma della violenza subìta.
La nostra società non tiene più in alcun conto gli altri. Una società profondamente individualista – continua Mirto. In cui l’altro non esiste, non è “umano”, non è niente se non uno strumento per raggiungere lo scopo (rigorosamente a brevissimo termine) dell’individuo”.
La soluzione? “Non è semplice né istantanea. La nostra società deve portare avanti e riscoprire l’educazione al rispetto dell’altro, l’idea che la libertà esista ma abbia dei confini. Una società che impari a gestire la frustrazione delle aspettative e dei desideri e l’accettazione di un ‘no’, da chiunque provenga e per qualunque motivo. Una cultura, dunque, che riconosca pari dignità a tutti gli esseri umani a prescindere dalle diversità. La prevenzione passa necessariamente da un cambiamento profondo della nostra società”, conclude Mirto.
Il consenso della vittima. Il rischio di “vittimizzazione secondaria”
“In Italia perdura il pregiudizio che imputa, almeno in parte, alla donna la responsabilità della violenza sessuale subìta”, dice infine Federica Prestidonato, avvocata penalista del Centro Antiviolenza Lia Pipitone.
“Vorrei non dover più sentire nelle aule di Tribunale domande quali: ‘Lei ha detto di no?’, ‘Lo ha detto più volte?’, ‘Ne è sicura?’, ‘Ha gridato? Lo ha respinto?’. Vorrei non dover leggere più nelle sentenze considerazioni quali: ‘La ragazza in qualche misura con il suo comportamento potrebbe aver ingenerato nell’imputato l’idea che…”, continua l’avvocata.
Riguardo il consenso della vittima? “Nel Codice penale italiano, la violenza sessuale non è definita esplicitamente come un ‘rapporto sessuale senza consenso’. Affinché una condotta sia considerata stupro e sia considerata e sanzionata come un reato, è necessario che concorrano gli elementi della violenza, della minaccia, dell’inganno o dell’abuso di autorità (art. 609-bis). La pena per il reato di violenza sessuale è aumentata, per il ricorrere di alcune circostanze, tra le quali se i fatti sono commessi con l’uso di sostanze alcoliche o stupefacenti.
Anche da questo punto di vista l’Italia non ha rispettato la Convenzione di Istanbul, che pure ha sottoscritto e ratificato. L’articolo 36, paragrafo 2, della Convenzione di Istanbul specifica che il consenso ‘deve essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona, e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto’.
A fronte di tali pregiudizi e stereotipi di cui è intrisa la nostra cultura, anche giuridica, non possiamo certamente parlare seriamente di tutela delle persone offese dai rischi di vittimizzazione secondaria”, conclude l’avvocata.