PALERMO. All’interno del carcere, accompagna moralmente e spiritualmente le persone. Le aiuta a vivere la loro esperienza di detenzione in maniera costruttiva, attraverso l’ascolto ed il conforto. Ecco il ruolo del cappellano. Abbiamo ascoltato a tal proposito tre voci importanti: un cappellano che da un anno esercita questo servizio nel carcere minorile Malaspina, la dirigente di quest’ultimo e l’arcivescovo di Palermo.
“La tipologia dell’istituto penitenziario per minori, il cosiddetto IPM, ha una funzione rieducativa del giovane che ha commesso il reato, vi sono un programma e una struttura interna totalmente differenti rispetto a quelli del carcere dei maggiorenni” afferma don Carlo Cianciabella, cappellano del carcere minorile Malaspina. “Nel carcere minorile, grazie a Dio, vi sono pochi detenuti; questo è un buon segno perché è indice di una malavita giovanile che forse sta mutando – aggiunge -. Stare a contatto con il carcerato credo sia il massimo per un sacerdote; le persone che si incontrano in questo luogo sono particolari, perché sono segnate dalla vita”.
Secondo il sacerdote, le persone che incontra in carcere “mi danno l’opportunità di sperimentare la mia fede. Non è scontato ritenersi uomini di fede; questa non si professa con le parole ma con l’esperienza della vita e nell’ordinarietà di questa”. Don Cianciabella indica una caratteristica delle persone che quotidianamente incontra: “Chiunque si avvicina a te in quanto cappellano, è sincero e non si nasconde dietro un dito. Anzi, il carcerato ti cerca e, nel momento in cui si accorge che tu non giudichi, la relazione è instaurata e il messaggio evangelico è passato. La nostra non è una missione da eroi, sappiamo guardare negli occhi, sappiamo dialogare e sappiamo abbracciare. Questa è la mia esperienza di carcere”.
Clara Pangaro, dirigente del carcere minorile Malaspina, indica anche la sua prospettiva: “Il cappellano rappresenta una figura significativa per i ragazzi, non solo per quelli di religione cattolica, ma anche per quelli di altre religioni – dice -. Proprio perché è considerata un’attività di servizio, ciò che caratterizza il cappellano è l’accoglienza e l’ascolto dell’altro e quindi tutti i ragazzi trovano in lui una figura importante a cui rivolgersi. Il tempo del carcere è un tempo di introspezione; il carcere è comunque un luogo di sofferenza e quindi è molto importante che i ragazzi abbiano una figura a cui potersi rivolgere, per confrontarsi con le questioni che li addolorano e che attengono a quella che è la loro sfera più intima, più personale, e anche alla loro spiritualità”.
“La pastorale carceraria è prima di tutto la consapevolezza di chi abita il carcere, quindi di volti, di umanità e di esperienze che ci appartengono, perché sono nostri fratelli e nostre sorelle”, afferma mons. Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo, che ricorda il “grande lavoro” che fanno i cappellani di Palermo e di Termini, al Malaspina, dove ci sono i ragazzi più giovani, e all’Ucciardone come anche al carcere Pagliarelli. “Li vorrei ricordare perché sono luoghi che fin dal mio arrivo a Palermo ho visitato e continuo a visitare. I detenuti sanno che sentiamo nei loro confronti questa appartenenza e pensiamo a una società che non li vuole relegare ma che vuole avere la gioia di riaverli avendo dato loro una opportunità di ripensamento della vita”. Il vescovo conclude dicendo che “tutti ci appartengono perché sono esseri umani, e la maggior parte perché sono battezzati come lo siamo noi; sono quindi membri della Chiesa”.