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giovedì, 6 Marzo 2025
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Da Palermo alla Nigeria: la denuncia delle “fila della tratta” negli scatti di Bellina in mostra a Palazzo Sant’Elia

Si chiama "Oriri", che nella lingua Bini significa "spiriti", "incubi", il viaggio fotografico del giornalista siciliano nell'esperienza di migliaia di donne vittime della schiavitù sessuale

Lilia Ricca
Lilia Ricca
Giornalista pubblicista, laureata in Comunicazione per le Culture e le Arti all'Università degli Studi di Palermo, con un master in Editoria e Produzione Musicale all'Università IULM di Milano. Si occupa di cultura, turismo e spettacoli per diverse testate online e da addetto stampa. Scrive di sociale per "Il Mediterraneo 24"
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PALERMO. Arrivano spesso dal mare, gonfie di dolore, e finiscono sulla strada. Decine di migliaia di ragazze che un fantomatico “spirito” Voodoo lega per sempre ai loro sfruttatori. Si chiama “Oriri”, che nella lingua Bini significa “spiriti”, “incubi”, il viaggio fotografico del giornalista siciliano Francesco Bellina, nell’esperienza di migliaia di donne vittime della tratta e della schiavitù sessuale, da Palermo alla Nigeria, che da sabato 26 giugno fino al 23 ottobre 2021, sarà in mostra a Palazzo Sant’Elia, a Palermo.

Un viaggio a ritroso. Si parte da Palermo, dove abitano alcune donne schiave della tratta, per ripercorrere il tragitto infernale sui barconi che le trasportano dalle coste libiche all’Italia. E, ancora, indietro fino al deserto del Niger, all’arida regione del Sahel, crocevia di quasi tutti i traffici di esseri umani, fino alle chiese del Ghana. Benin, Niger, Ghana, Nigeria, Mar Mediterraneo e Sicilia.

Il viaggio comincia dal mercato di Ballarò con le storie di Emeka Don e della profetessa Odasani. Emeka Don si trova incastrata in un destino doloroso e scomodo, da cui non riesce a staccarsi. Per molti giornali e alcune procure, si chiama “mafia nigeriana”. Odasani, originaria del Ghana, usa invece la propria familiarità con rituali e pratiche religiose dell’Africa occidentale, per cercare di spezzare il vincolo tra giovani donne nigeriane, costrette a prostituirsi, e chi le sta sfruttando. Sono volti di un mondo che dal 2015 occupa le prime pagine dei quotidiani, restando quasi sempre in superficie. In quegli anni, decine di migliaia di donne nigeriane raggiungono via mare l’Italia, andandosi probabilmente ad aggiungere alle loro connazionali, lungo strade di periferia.

A legare le donne a chi le sposta e le sfrutterà, ripetono giornali e carte delle inchieste giudiziarie, sono spesso dei rituali religiosi. Lo chiamano ‘vudù’, altre volte ‘juju’: qualcosa di lontano, incomprensibile, di africano. Da Palermo, attraverso spezzoni di reportage e inchieste, si viaggia in Benin, dove il vudù è religione ufficiale, rivendicata e per certi versi protetta. Poi in Nigeria: il cuore di questo percorso. Dallo stato di Edo, nel sud-ovest della Nigeria, parte la maggioranza delle donne destinate all’Italia. Traversate estenuanti. C’è una conta amara di chi non ce l’ha fatta, che rimane bloccata tra le mura di troppe case.

Si passa dal Niger, subito a nord della Nigeria. Da Niamey, Agadez, Dirkou, per proseguire verso la Libia. Dal 2017 però, la strada si interrompe. L’Unione Europea interviene nello stato di Edo ma anche in Niger, per fermare le traversate del Sahara, mentre l’Italia rinnova un accordo con la Libia, per pattugliare le coste del Mediterraneo. Cambiano le destinazioni, come segnalano alcune organizzazioni internazionali: i paesi vicini, come il Ghana o il Mali, ma anche paesi dell’Asia, dal Libano alle monarchie del Golfo. Dall’Europa intanto si spinge per accrescere i rimpatri, e i cittadini e le cittadine della Nigeria, spesso respinti da sistemi d’accoglienza e regolarizzazione approssimativi, sono in prima fila. Poco conta la violenza subita durante e dopo il viaggio verso l’Europa.

Una ragazza di 25 anni era stata venduta e ridotta allo sfruttamento sessuale con la complicità della sorella. Una delle tante donne che da schiave vengono inglobate nelle organizzazioni criminali. Tra lacrime, botte e abusi la volontà di scappare non le è mai venuta meno, ed è riuscita a farlo grazie ai fotogiornalisti Francesco Bellina di Palermo e Giacomo Zandonini di Roma, che quella notte lavoravano a “Oriri”.

Il progetto di Bellina realizzato tra il 2016 e il 2020, a cura del fotografo monzese e fondatore di Cesura Luca Santese, vuole mostrare cosa sta all’origine di un sistema criminale che sfrutta le donne e le costringe a una vita infernale, tenendole legate a falsi rituali e perverse dipendenze.

“Oriri” è un viaggio che nasce dalla miseria e dall’ignoranza, ma che diventa malefico nel cosiddetto ‘mondo occidentalizzato’. Bellina ha raccolto le tracce del suo percorso, le ha cucite insieme ed è ritornato dove tutto ha origine. Il suo lavoro oltre che un racconto è diventato qualcosa di più: è diventato denuncia, urlo, carezza, forse anche desiderio di rinascita.

La mostra fotografica è stata realizzata grazie al supporto del Comune di Palermo, della Fondazione Sant’Elia, della Fondazione Sicilia e Arci Porco Rosso. “Palermo è sempre stata accoglienza, integrazione, futuro”, dichiara il sindaco di Palermo Leoluca Orlando. “Il lavoro di Francesco Bellina riannoda fili che partono da lontano ma giungono fino a noi. La mostra a Sant’Elia fa parte di un progetto sfaccettato sull’Africa che passa attraverso tradizioni, costumi, gioielli, pittura ma anche il racconto di realtà terribili da condannare. E Palermo condanna, in spirito di solidarietà con le vittime, ed accoglie con spirito di fraternità, libertà ed eguaglianza”. Dichiara il presidente della Fondazione Sicilia Raffaele Bonsignore: “È cruciale, in questo momento storico, continuare a riflettere su come il corpo della donna sia spesso oggetto di ogni tipo di violenza fisica e psicologica. Fondazione Sicilia si è già occupata del tema, affrontando il fenomeno del ‘body shaming’. E oggi aiuta a mettere in luce un altro aspetto legato alla donna e al suo corpo. Oriri significa incubo: speriamo che, attraverso la conoscenza di questi fenomeni e il contributo della società, questa parola venga sostituita da ‘libertà'”.

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