PALERMO. Si svolta la cerimonia di premiazione della terza edizione del concorso poetico “Poeticamente giovani. Sul Cassaro la poesia”, attività culturale – nata da un’idea del professore Tommaso Romano – e fortemente voluta e curata dalle scuole del centro storico che vanno da porta Felice a Porta Nuova: “Convitto Nazione di Stato Giovanni Falcone” con il Rettore Cettina Giannino, scuola capofila; “Regina Margherita” con il D.S. Domenico Di Fatta; “Ragusa-Kiyohara- Parlatore” con il D.S. Sergio Picciurro; “Vittorio Emanuele II”, con il D.S. Mariangela Ajello; “Benedetto Croce”, con D.S. Mario Veca; “Gioeni Trabia” con D.S. Andrea Tommaselli e “Lombardo Radice” con D.S. Francesco Paolo Camillo. “Le scuole – ha dichiarato il D.S. Domenico Di Fatta, presidente della giuria – devono tenere conto dell’ alto valore della poesia, come ancestrale manifestazione dei sentimenti dei giovani e come sublimazione dei valori più alti legati al bello e al vero”.
I vincitori delle varie categorie sono Marco Mazzamuto con la lirica “Mi annerisco d’immenso”, Emanuele Catania con la lirica “Niente o tutto”, Bruna Di Figlia con la lirica “Non appartengo a un luogo”, Gaia Di Maria con la lirica “Respira”, Gabriele Gaglio con la lirica “Sogno di Palermo”, Giulia Geraci con la lirica “Dietro Silenzi”, Sofia Eleonora Rizzo con la lirica “Nel silenzio del mio angolo di mondo”, Desirée Patellaro con la lirica “Questo Mare”, Alice Geluso con la lirica “Io resto”, Francesco Paolo Farina con la lirica “Il mio posto nel mondo”, Gabriele Pace, del Liceo delle Scienze Umane dell’Istituto “Regina Margherita”, con la lirica “Il mio posto nel mondo”, la quale risultata essere la vincitrice assoluta del concorso poetico con il plauso straordinario anche della “giuria giovani” composta dai rappresentanti d’Istituto della Rete “Al Qsar”. Un evento che assume un significato speciale, poiché incarna lo sforzo di creare una rete di legami umani e culturali tra oltre 10.000 studenti che frequentano le scuole del centro storico di Palermo.
“La mia poesia nasce da una sensazione precisa e difficile da spiegare: quella di sentirsi estranei nel posto in cui si è nati. Una terra che ti ha formato, che ti ha dato la voce, i primi passi, il dialetto, ma che allo stesso tempo sembra non volerti più ascoltare. È come se ti dicesse: “Puoi andare”, senza chiederti il motivo, senza tentare di trattenerti – spiega Gabriele Pace -. È lì che nasce il vuoto. E non è un vuoto qualunque: è un vuoto che pesa dentro, che si porta dietro la domanda più difficile — dove appartengo? Da qui è nata la poesia: da una frattura silenziosa, da quel dolore sottile di sentirsi fuori posto proprio dove si dovrebbe essere a casa. Ma questo dolore non l’ho voluto raccontare per rassegnazione. L’ho scritto per trasformarlo. Per cercare, nel mezzo del caos, un respiro. Viviamo in una generazione spesso guardata con sospetto, giudicata frettolosamente come fragile, distratta, senza direzione. Eppure, io vedo tanti ragazzi che sentono profondamente, che si pongono domande, che fanno fatica a trovare spazio ma non smettono di cercarlo. Non siamo “persi”, siamo in viaggio. Forse il nostro zaino non ha la stessa polvere di quello dei nostri nonni, ma dentro porta inquietudine, bisogno di senso, e spesso anche solitudine. Il messaggio della mia poesia è proprio questo: non smettere di cercare. Anche quando la tua terra ti respinge, anche quando ti senti invisibile. Esiste un posto per noi, anche se oggi non lo vediamo chiaramente. E se non c’è ancora, lo possiamo costruire. Un passo alla volta. Una parola dopo l’altra. Scrivere, per me, è stato questo: un modo per non sparire, per non lasciarmi definire dal silenzio attorno. È stato il mio modo di dire che ci sono, che ci siamo. E che, nonostante tutto, la speranza può ancora essere un atto di resistenza“.