PALERMO. Che si occupi di scarpe il dubbio non viene. Non è che le ripara soltanto ma proprio le confeziona e le mostra orgoglioso girandole e rigirandole tanto che poi lo si legge sull’intersuola in un distinto dorato, a mò di firma, Antimo Calzolaio.
Col suo grembiule azzurro sta in una bottega di pochi metri quadri che si apre in via Casa Professa, dove di certo, oltre gli strumenti del mestiere, non manca in un angolo a sinistra una sedia con un cuscino a quadrucci che – e si vede – ha ospitato molte persone. Non è facile ormai distinguere i trincetti, utili a tagliare la pelle, le lesine, colle, vernici, allargascarpe, bipiede e tripiede: sembrano segreti arnesi di altri tempi.
Tra gli odori del mastice e del cuoio o della gomma rimane fisso sulle scarpe che sta riparando e risponde ai clienti che entrano ed escono. Non sono solo i palermitani del noto rione palermitano ma arrivano da altri quartieri di Palermo e arrivano anche da pretenziosi clienti che vivono al di là dell’Isola. “La clientela è internazionale: sono francesi, cinesi, israeliani. Ad esempio – dice – quelle che sto verniciando sono per un norvegese che con il suo piede taglia quarantotto me ne chiede un paio per ogni stagione”.
Antimo Scalera ha cominciato a lavorare nella stessa botteguccia di via Casa Professa come calzolaio a otto anni alle dipendenze del signor Lipari e da allora non ha più smesso. Stesso posto da sessantanove anni, stesse pareti, stesso tavolinetto. Col tempo in più una televisione di qualche pollice e un ventilatore per le caldissime estati palermitane.
Di storie di quell’angolo del capoluogo siciliano ne sa quanto le balate di Ballarò, dopotutto la sua storia si intreccia con quella delle persone che hanno abitato e abitano il rione palermitano e a ricordare ricorda tutti i bambini che hanno frequentato la vicinissima scuola. Alcuni di questi, che magari non entravano a scuola, se ne stavano nella bottega e Antimo qualcosa gliela insegnava pure, ricordandogli soprattutto quanto la scuola fosse importante.
Tra i tanti ricorda Peppe, un bambino che in “un giorno di Febbraio mentre pioveva entra e mi chiede di incollargli le scarpe. Erano scollate e la suola consumata. Gli ho dato delle scarpe nuove”. Da quel momento Peppe, uscendo da scuola, trascorreva i pomeriggi da Antimo quasi come se il tavolo con tutti quegli strumenti sopra fosse un tavolo di cucina su cui fare i compiti; così ogni giorno, “nonostante non venissero descritti come raccomandabili i familiari, veniva e se ne stava qua. In fondo i bambini sono tutti ‘picciriddi‘. Poi – continua – un giorno mi chiese di potere lavorare qui. Non potevo dire di sì, ho dovuto dire di no. Da allora l’ho rivisto solo una volta: era in mano ad un maresciallo perché aveva scippato due turiste”.
Lo ricorda sempre Peppe e ricordando si commuove con amarezza “perché quel bambino era come me ma io ho avuto una possibilità: la legge lo permetteva. Lui non ne ha avute”.
Alla parete della botteguccia tante foto: sono squadre di bambini, quelli che, lavorando come custode della vicinissima scuola Turrisi Colonna, tra un paio di scarpe da cucire e un altro da realizzare, ha conosciuto. “La certezza era che solo andando a scuola potevo dare una mano al quartiere anche per aiutare altri Peppe”.
E per quei bambini scatenati “che hannu a jucari, perché i picciriddi hannu a Jucari” Antimo nella palestra della scuola con due palloni organizza le squadre, dà regole: così iniziano i tornei della gioventù nei campi di calcio presi in affitto e con le maglie acquistate con i soldi di negozi che si facevano sponsor. Tra i tanti volti, quella di Pamela Conti, unica femmina a giocare in una squadra di calcio, adesso allenatrice della Nazionale femminile del Venezuela, che campeggia in uno degli articoli ingialliti appesi al muro.
A raccontare quelle stagioni e le sue partite anche attestati. Altre foto e lettere nel cassetto del tavolo. Una è del 1995: “Caro papà – si legge – oggi è la tua festa. Io con il mio cuore vorrei dirti GRAZIE. Con te mi sento forte. Grazie papà per quello che tu sei. Marco”.
Lì tra lesine, colle, vernici, allargascarpe, bipiede e tripede, che sembrano segreti arnesi di altri tempi, la storia di tanti bambini, un altro paragrafo della storia di una città. Una storia che comunque continua a raccontarsi nella botteguccia di via Casa Professa che si apre tra due muri: ampia e a colori la scritta, tra due scarpe dipinte a muro, “Calzolaio Antimo”.