PALERMO. In piedi, vicino alla porta, guardavo il mio alunno correre per l’aula. Velocissimo, aveva fatto già due volte il giro della stanza, prendendo a calci gli zaini poggiati sul pavimento, dietro le sedie ed imitando alla perfezione i versi dei dinosauri dei suoi video preferiti. Era piccolo per la sua età. A guardarlo così, con bellissimi occhi verdi e perfettamente proporzionato, non lo si capiva, ma, quando stava seduto accanto ai compagni, la differenza risultava subito evidente.
Approfittando di un suo momento di distrazione, riuscimmo a fermarlo. Lo feci sedere vicino alla cattedra dicendo che sarebbe tornato al suo posto, tra gli altri, non appena si fosse calmato. Era già successo altre volte. All’improvviso lasciava il suo banco e lui, così piccolo, in un attimo diventava grande, anzi un gigante, così grande e così forte da fare a tutti paura.
Era arrivato da noi da poche settimane. I primi giorni di scuola era rimasto solo per qualche ora e io avevo pensato di disegnare i personaggi dei cartoni che a lui piacevano. Mentre lavoravo, seduto accanto a me, giocava con i pupazzi e le macchinine che non rinunciava a portarsi da casa, fingeva sempre lotte e inseguimenti e non voleva essere disturbato, nemmeno allungava lo sguardo per vedere cosa stessi facendo. Appena terminavo, mettevo il foglio sul suo banco, sotto i suoi occhi, lo invitavo a guardarlo e a colorare e ogni volta, nel giro di qualche minuto, il mio disegno finiva in aria in tanti piccoli pezzi.
L’insegnante di sostegno non deve insegnare o meglio insegnare viene dopo. Prima deve imparare, imparare la pazienza, imparare ad aspettare, prima deve guardare, conoscere, fare domande. All’ennesimo disegno strappato, senza averlo pensato prima, feci quello che forse avrei dovuto fare fin dall’inizio, feci la cosa più semplice e logica che potessi fare. Gli chiesi perché, perché era arrabbiato, che cosa gli dava fastidio. Lui non mi diede nessuna risposta, però, smettendo di lanciare tutto quello che stava sul banco, mi guardò sorpreso, sorpreso del mio interesse, delle mie attenzioni. Fino ad allora non mi ero occupata davvero di lui, non avevo nemmeno tentato di vedere quell’aula come lui la vedeva. A me interessava solo che guardasse il mio disegno e lo colorasse per non andarmene da scuola troppo delusa, per potere pensare che quella giornata non era stata inutile.
Non è facile, ma ad un certo punto bisogna lasciare le certezze, le abitudini, anche quelle dentro cui si sta comodi, quelle che fanno sentire al sicuro. Ad un certo punto bisogna convincersi che non esiste una sola scuola, quella di aule con porte chiuse, di sedie su cui stare composti, di campanelle che puntuali suonano, di lezioni che iniziano e finiscono. Il materiale preparato a casa con cura potrà rimanere inutilizzato per giorni e anche di più, i metodi tante volte usati potranno rivelarsi inutili e la lezione che si voleva spiegare dovrà essere rimandata tante volte. Bisogna trovare altre strade, altri modi, modi che non si sarebbero mai scoperti se non si fosse stati costretti a cercarli. Bisogna riconoscere che esistono altre regole, altri linguaggi.
Il mio alunno parlava un’altra lingua. Da solo si era inventato altre parole per chiamare le cose e per dire come si sentiva. Invece di imitare, di ripetere quelle degli altri, lui ne aveva trovate di nuove, di sue, parole che piano piano io cominciai a capire e ad imparare.
Una mattina, entrando in classe, col fiatone come al solito, mentre mi dirigevo verso il mio banco, sentì due braccia stringermi. Pensavo fosse Azzurra, perché spesso lo faceva vedendomi arrivare. Voltandomi, invece, scoprii che era lui. Quel momento inatteso, impagabile era la prova che c’era una relazione finalmente e da solo giustificava mesi di delusioni e di no, da solo giustificava ogni cosa.
Da quel giorno tutto fu più facile, fu possibile cominciare ad insegnare e anche trovare i modi per farlo. La faccia di un lupo divenne una U, divenne insieme un suono e un segno che fu subito appreso. Una bocca spalancata per la sorpresa divenne una O, una bambina alta, alta e magra come un chiodo, che piangeva disperata fu la I e bicchieri con dentro gelatine zuccherate divennero numeri.
Non esiste una sola scuola, ci sono tante scuole, ci sono altre parole oltre alle nostre e oltre alla U di uva c’è anche la U di lupo.
Susanna Raso